Testi di Charles Baudelaire e di Gabriele D'Annunzio
Charles Baudelaire, Duellum, 1858, in Les
fleurs du mal, Paris, Lévy, 1868, vv. 1-4, 13-14, trad. di Giovanni Raboni
Due guerrieri sono corsi l’uno contro l’altro; le
loro armi hanno insanguinato e illuminato l’aria. Quei colpi. Quei ticchettii
sono gli schiamazzi d’una gioventù in preda a un amore che piange.
Le spade sono spezzate come la nostra giovinezza, o
cara. Ma i denti, le unghie appuntite vendicheranno presto la lama traditrice.
O furore di cuori maturi ulcerati dall’amore!
I nostri eroi, stringendosi furiosamente, sono
precipitati nel burrone infestato dai gattopardi e dalle lonze, e la loro pelle
fiorirà i roveti aridi.
Quell’abisso è l’inferno, popolato dai nostri
amici. Rotoliamoci senza rimorsi,
amazzone inumana, al fine di rendere eterno l’ardore del nostro odio!
Da Gabriele D’Annunzio, Il piacere, Milano, Treves, 1889.
Andrea
Sperelli rientrando nel recinto pensava: «La fortuna è con me, oggi. Sarà con
me anche domani?» Sentendo venire a sé l’aura del trionfo, ebbe contro l’oscuro
pericolo quasi una sollevazion d’ira. Avrebbe voluto affrontarlo sùbito, in quello
stesso giorno, in quella stessa ora, senza altro indugio, per godere una
duplice vittoria e per mordere quindi al frutto che gli offriva la mano di donna
Ippolita. Tutto il suo essere accendevasi d’orgoglio selvaggio, al pensiero di
posseder quella bianca e superba donna per diritto di conquista violenta. L’imaginazione
gli fingeva un gaudio non mai provato, quasi direi una voluttà d’altri tempi,
quando i gentiluomini scioglievano i capelli delle amasie con mani omicide e
carezzevoli, affondandovi la fronte ancóra grondante per la fatica dell’abbattimento
e la bocca ancóra amara delle profferte ingiurie. Egli era invaso da quella
inesplicabile ebrezza che dànno a certi uomini d’intelletto l’esercizio della
forza fisica, l’esperimento del coraggio, la rivelazione della brutalità. Quel
che in fondo a noi è rimasto della ferocia originale torna al sommo talvolta
con una strana veemenza ed anche sotto la meschina gentilezza dell’abito
moderno il nostro cuore talvolta si gonfia di non so che smania sanguinaria ed
anela alla strage. […]
E il barone riprese: - Giannetto
Rùtolo, su la pedana, è un discreto tiratore; sul terreno, è di primo impeto. S’è
battuto una volta sola, con mio cugino Cassìbile; e n’è uscito male. Fa molto
abuso di «uno, due» e di «uno, due, tre», attaccando. Ti gioveranno gli
«arresti in tempo» e specialmente le «inquartate». Mio cugino, appunto, lo bucò
con una «inquartata» netta, al secondo assalto. E tu sei un tempista forte.
Abbi però l’occhio sempre vigile, e cerca di conservar la misura. Sarà bene che
tu non dimentichi d’avere a fronte un uomo a cui hai presa, dicono, l’amante e
su cui hai levato il frustino. Erano nella piazza di Spagna. La Barcaccia
metteva un chioccolìo roco ed umile, luccicando alla luna che vi si specchiava
dall’alto della colonna cattolica. Quattro o cinque vetture publiche stavano
ferme, in file, coi fanali accesi. Dalla via del Babuino giungeva un tintinnio
di sonagli e un romor sordo di passi, come d’un gregge in cammino. A piè della
scala, il barone s’accomiatò. - Addio, a domani. Verrò qualche minuto prima delle
nove, con Ludovico. Tirerai due colpi, per scioglierti. Penseremo noi ad avvisare
il medico. Va; dormi profondo.
Andrea
si mise su per la scala. Al primo ripiano si soffermò, attirato dal tintinnio
dei sonagli, che s’avvicinava. Veramente, egli si sentiva un po’ stanco; a
anche un po’ triste, in fondo al cuore. Dopo la fierezza suscitatagli nel
sangue da quel colloquio di scienza d’arme e dal ricordo della sua bravura, una
specie d’inquietudine l’invadeva, non bene distinta, mista di dubbio e di scontento.
I nervi, troppo tesi in quella giornata violenta e torbida, gli si rilassavano
ora, sotto la clemenza della notte primaverile. – Perché, senza passione, per
puro capriccio, per sola vanità, per sola prepotenza, erasi egli compiaciuto di
sollevare un odio e di rendere dolorosa l’anima di un uomo? – Il pensiero della
orribile pena che certo doveva affliggere il suo nemico, in una notte così
dolce, gli mosse quasi un senso di pietà. L’imagine di Elena gli traversò il
cuore, in un baleno; gli tornarono nella mente le angosce durate un anno
innanzi, quando egli l’aveva perduta, e le gelosie, e le collere, e gli sconforti
inesprimibili. – Anche allora le notti erano chiare, tranquille, solcate di
profumi; e come gli pesavano! – Aspirò l’aria, per ove salivano i fiati delle
rose fiorite ne’ piccoli giardini laterali; e guardò giù nella piazza passare
il gregge. La folta lana biancastra delle pecore agglomerate pro[1]cedeva
con un fluttuamento continuo, accavallandosi, a similitudine d’un’acqua fangosa
che inondasse il lastrico.
Qualche
belato tremulo mescevasi al tintinno; altri belati, più sottili, più timidi, rispondevano;
i butteri gittavano di tratto in tratto un grido e distendevano le aste, cavalcando
dietro e a’ fianchi; la luna dava a quel passaggio d’armenti, per mezzo alla
gran città addormentata, non so che mistero quasi di cosa veduta in sogno.
Andrea si ricordò che in una notte serena di febbraio, uscendo da un ballo
dell'Ambasciata inglese nella via Venti Settembre, egli ed Elena avevano
incontrata una mandra; e la carrozza aveva dovuto fermarsi. Elena, china al
cristallo, guardava le pecore passar rasente le ruote e indicava gli agnelli
più piccoli, un un’allegria infantile; ed egli teneva il suo viso accosto al
viso di lei, socchiudendo gli occhi, ascoltando lo scalpiccìo, i belati, il tintinno.
Perché mai gli tornavano ora tutte quelle memorie di Elena? – Riprese a salire,
lentamente. Sentì più grave, nel salire, la sua stanchezza; i ginocchi gli si
piegavano. Gli lampeggiò d’improvviso il pensiero della morte. «S’io rimanessi
ucciso? S’io ricevessi una cattiva ferita e n’avessi per tutta la vita un
impedimento?» La sua avidità di vivere e di godere si sollevò contro quel
pensiero lugubre. Egli disse a sé medesimo: «Bisogna vincere.» E vide tutti i
vantaggi ch’egli avrebbe avuti da quell’altra vittoria: il prestigio della sua
fortuna, la fama della sua prodezza, i baci di Donna Ippolita, nuovi amori,
nuovi godimenti, nuovi capricci.
Da Gabriele D’Annunzio, L’innocente, Napoli, Bideri, 1892.
Allora, mentre mi durava nel sangue l’eccitamento della corsa, per quell’esuberanza di coraggio fisico, per quell’istinto di combattività ereditario che tanto spesso si risvegliava in me al rude contatto degli altri uomini, io sentii che non avrei potuto rinunziare ad affrontare Filippo Arborio. “Andrò a Roma, cercherò di lui, lo provocherò in qualche modo, lo costringerò a battersi, farò di tutto per ucciderlo o per renderlo invalido.” Io me lo imaginavo pusillanime. Mi tornò alla memoria una mossa un po’ ridicola che gli era sfuggita, nella sala d’armi, al ricevere in pieno petto una botta dal maestro. Mi tornò alla memoria la sua curiosità nel chiedermi notizia del mio duello: quella curiosità puerile che fa spalancare gli occhi a chi non s’è trovato mai nel cimento. Mi ricordai che, durante il mio assalto, egli aveva tenuto lo sguardo sempre fisso su me. La conscienza della mia superiorità, la certezza di poterlo sopraffare mi sollevarono. Nella mia visione, un rivo rosso rigò quella sua pallida carne ributtante. Alcuni frammenti di sensazioni reali, provate in altri tempi a fronte di altri uomini, concorsero a particolarizzare quello spettacolo imaginario nel quale m’indugiavo. E vidi colui sanguinoso e inerte su un pagliericcio, in un casale lontano, mentre i due medici accigliati gli si curvavano sopra. Quante volte io, ideologo e analista e sofista in epoca di decadenza, m’ero compiaciuto d’essere il discendente di quel Raimondo Hermil De Penedo che alla Goletta operò prodigi di valore e di ferocia sotto gli occhi di Carlo Quinto! Lo sviluppo eccessivo della mia intelligenza e la mia multanimità non avevano potuto modificare il fondo della mia sostanza, il substrato nascosto in cui erano inscritti tutti i caratteri ereditarii della mia razza. In mio fratello, organismo equilibrato, il pensiero s’accompagnava sempre all’opera; in me il pensiero predominava ma senza distruggere le mie facoltà di azione che anzi non di rado si esplicavano con una straordinaria potenza. Io ero insomma un violento e un appassionato consciente, nel quale l’ipertrofia di alcuni centri cerebrali rendeva impossibile la coordinazione necessaria alla vita normale dello spirito. Lucidissimo sorvegliatore di me stesso, avevo tutti gli impeti delle nature primitive indisciplinabili. Più d’una volta io ero stato tentato da improvvise suggestioni delittuose. Più d’una volta ero rimasto sorpreso dall’insurrezione spontanea d’un istinto crudele.