Onore di donna

Testi di Veronica Franco, Italia Donati, Luigi Pirandello, Grazia Deledda, Sibilla Aleramo



Da [Veronica Franco], Terze rime, Venezia,1575, XVI, vv. 1-15.


Non più parole, a i fatti, in campo a l’armi, 

Ch’io voglio, risoluta di morire

Da sì grave molestia liberarmi: 

Non so, se ’1 mio, cartel si debba dire. 

In quanto do risposta provocata: 

Ma perché in rissa de’ nomi venire? 

Se vuoi, da te mi chiamo disfidata, 

E, se non, ti disfido; o in ogni via 

La prendo, e ogni occasion m’è grata : 

Il campo, o l’armi elegger a te stia, 

Ch’io prenderò quel, che tu lascierai; 

Anzi pur ambo nel tuo arbitrio sia 

Tosto son certo, che t’accorgerai 

Quanto ingrato, et di fede mancatore 

Fosti; e quanto tradito a torto m’hai.



[Italia Donati al fratello Italiano, 31 maggio 1886], da Guido Antonio Marcati, Italia Donati, in «Il Risveglio Educativo», anno II, n. 38 del 20 giugno 1886, pp. 285-286.


Mio caro fratello, perdonami anche tu del dolore che vi reco facendo questo passo; ma la vita è troppo triste per me e nella morte solo trova la pace, l’onore. Tranquillizzati: io sono innocentissima di tutte le accuse fattemi e la prova l’avrai, come l’avranno tutti, dopo la morte. A te, unico fratello, a te mi raccomando con tutto il cuore e a mani giunte di far quello che occorrerà per far risorgere l’onor mio, Non ti spaventi la mia morte, ma ti tranquillizzi pensando che con quella ritorna l’onore nella nostra famiglia. Sono una vittima dell’infame pubblico e non cesserò di essere perseguitata che con la morte. Prendi il mio corpo cadavere, e dietro sezione e visita medico-sanitaria fai luce a questo mistero. Sia la mia innocenza giustificata e fai che nessun dubbio resti nel pensiero d’alcuno. Guardati bene dal non fare che ho detto e pensa, che muoio per questo motivo. Sia la mia fine un esempio alle mie nipoti e ricordala loro quando conosceranno il mondo l’infelicissima Italia che muore per l’onore. Aiuta babbo e mamma e consolali insieme alle due sorelle che rimangono e fate entrambi in modo d’alleggerire le loro pene; sono cattiva figlia è vero, ma io non posso più reggere e non posso vivere. Dunque addio tutti, perdonatemi e compiangetemi. Se vi fosse modo di far portare il mio corpo, dopo giustificato, nel Campo Santo del Cintolese senza sagrifizi, portacelo, e se no, lascialo qua in questo infame luogo e poni una pietra per segnale scrivendoci queste parole: Qui giace la vittima infelice Italia Donati, maestra di Porciano. Non voglio ragazze ad accompagnarmi, ma soli quattro incappati e bambini e bambine; compresi i miei scolari. Chiedo questo perché le ragazze che mi hanno odiata e biasimata in vita, non vengano a burlarsi di me per la via del sepolcro. I bambini e le bambine innocenti come sono io mi seguiranno assai meglio di loro. Tu hai capito. Ai quattro incappati darai 50 centesimi per ciascuno; e ai ragazzi e alle bambine due o tre soldi. Non voglio funerali soltanto due messe e basta. Addio, mio caro fratello, perdonami e non maledirmi e sii più contento così che vedermi disonorata Addio, unica cognata Ida, addio mio caro Donatino, addio nipotine, addio tutti: perdonate e compiangete l’infelice vostra Italia Donati.


 

Da Luigi Pirandello, L’esclusa (1901), Milano, Bemporad, 1927 edizione definitiva.

 


- Voglio fare un duello!

- Ah, un duello, tu? Benissimo capito.

- Ma non so, - riprese Rocco, - non so proprio nulla di.... di scherma. Come si fa? Non vorrei farmi ammazzare come un cane, capisci?

- Come un cane, benissimo capito. E allora qualche.... coup? Ah, un colpo — si dice? Sì, infallible, io te lo insegnare. Molto semplice, sì. Subito?

E Bill, con una mossa da scimmia ben educata, staccò dalla parete due vecchi fioretti arrugginiti.

- Aspetta, aspetta.... - gli disse Rocco, turbandosi alla vista di quei ferracci. - Spiegami, prima.... Io sfido, è vero? oppure, schiaffeggio, e sono sfidato. I padrini discutono, si mettono d’accordo. Duello alla sciabola, poniamo. - Si va - si va sul luogo stabilito. Ebbene, che si fa? Ecco, voglio saper tutto, con ordine.

- Sì, ecco, - rispose il Madden, a cui l’ordine, parlando, piaceva, per non imbrogliarsi; e si mise a spiegargli alla meglio, a suo modo, i preliminari d’un duello.

- Nudo? - domandò a un certo punto Rocco, costernatissimo. - Come nudo? perché?

- Nudo.... di camicia, - rispose il Madden. - Nudo il.... come si dice? le tronc du corps.... die Brust.... ah, yes, torso, il torso. O puramente, senza nudo, sì.... come si vuole.

- E poi?

- Poi? Eh, si duellare.... La sciabla; in guardia; à vous!

- Ecco, - disse Rocco, - io, per esempio, prendo la sciabola; avanti, insegnami.... Come si fa?...

Bill gli dispose bene, prima di tutto, le dita di tra le basette. Rocco si lasciò piegare, stirare, atteggiare come un manichino. Si avvilì presto però in quelle insolite positure stentate. - “Cado! cado!„ - , e il braccio teso gli si stancava, gli s’irrigidiva; il fioretto, possibile? pesava troppo. - “Eh! eh! olà! oilà!„ - incitava intanto il Madden. - “Aspetta, Bill!„ - nel dare quel colpo, il piede sinistro come poteva star fermo? e il destro, Dio! Dio! non poteva più ritrarsi in guardia! A ogni movimento il sangue gli affluiva con impeto alla ferita della fronte. Intanto, alle pareti, i decrepiti mobili pareva che sussultassero, sbalorditi, agli sbalzi ridicoli delle ombre mostruosamente ingrandite di quei duellanti notturni.

Bum! bum! bum! - alcuni colpi bussati con rabbia sotto il pavimento.

Il Madden ristette, scosciato, con la gran fronte imperlata di sudore. Tese l’orecchio.

- Abbiamo svegliato il professore Luca!

Rocco si era abbandonato, rifinito, su una seggiola, con le braccia ciondoloni, la testa cascante, appoggiata alla parete; quasi in deliquio. Pareva, in quell’atteggiamento, che avesse già terminato il duello con l’avversario e ricevuto una ferita mortale.

- Abbiamo svegliato il professore Luca, - ripetè Bill, guardando Rocco, a cui tale notizia pareva non arrecasse alcuna spiacevole sorpresa.

- Andrò io dal Blandino, - diss’egli alla fine, levandosi in piedi. - Bisogna sbrigar tutto prima di domani. Il Blandino mi farà da testimonio. Addio; grazie, Bill. Conto anche su te, bada.

Il Madden accompagnò col lume in mano l’amico fino alla porta; aspettò sul pianerottolo che il professor Blandino venisse ad aprire e, allorché la porta del secondo piano fu richiusa, si ritirò facendo un suo gesto particolare con la mano, come se si cacciasse una mosca ostinata dalla punta del naso.

Luca Blandino accolse di mal umore quella visita notturna. Borbottando, barcollando, introdusse Rocco per le altre stanze deserte, nella sua camera; poi, col barbone grigio abbatuffolato e gli occhi gonfi e rossi dal sonno interrotto, sedé sul letto con le gambe nude, pelose, penzoloni.

- Professore, abbia pietà di me, e mi perdoni, - disse Rocco. - Mi metto nelle sue mani.

- Che t’è accaduto? Tu sei ferito! - esclamò il Blandino con voce rauca, guardandolo con la candela in mano.

- Sì.... ah se sapesse! Da dieci ore, io.... Sa, mia moglie?

- Una disgrazia?

- Peggio. Mia moglie m’ha.... L’ho scacciata di casa....

- Tu? Perché?

- Mi tradiva.... mi tradiva.... mi tradiva....

- Sei matto?

- No! che matto!

E Rocco si mise a singhiozzare, nascondendo la faccia tra le mani e nicchiando:

- Che matto! che matto!

Il professore lo guardava dal letto, non credendo quasi agli occhi suoi, ai suoi orecchi, così soprappreso nel sonno.

- Ti tradiva?

- L’ho sorpresa che.... che leggeva una lettera.... Sa di chi? dell’Alvignani!

- Ah birbante! Gregorio? Gregorio Alvignani?...

- Sissignore - (e Rocco inghiottì). - Ora, capisce, professore.... così.... così non può, non deve finire! Egli è partito.

- Gregorio Alvignani?

- Scappato, sissignore. Questa sera stessa. Non so dove, ma lo saprò. Ha avuto paura.... Professore, mi metto nelle sue mani.

- Io? Che c’entro io?

- Una soddisfazione, professore, io certamente debbo prendermela.... di fronte al paese.... Non le pare? Posso restar così?

- Piano, piano.... Calmati, figlio mio! Che c’entra il paese?

- L’onore mio, professore! Non c’entra? Debbo difendere il mio onore.... Di fronte al paese....

Luca Blandino scrollò le spalle, seccato.

- Lascia stare il paese! Bisogna riflettere, ragionare. Prima di tutto: ne sei ben sicuro?

- Ho le lettere, le dico, le lettere che lui le buttava dalla finestra!

- Lui, Gregorio? come un ragazzino? Ma mi dici da vero?... Ohi, ohi, ohi.... Le buttava le lettere dalla finestra?

- Sissignore, le ho qua!

- Ma guarda, guarda, guarda.... E tua moglie, santo Dio! Non è figlia di Francesco Ajala, tua moglie? Bada, caro mio, quello è una bestia feroce.... Adesso nasce un macello!... Che m’hai detto? Che m’hai detto? Vah.... vah.... vah.... Dalla finestra? Le buttava le lettere dalla finestra, come un ragazzino?

- Posso contare su lei, professore?

- Su me? Perché? Ah, tu vorresti fare.... Aspetta, figliuolo mio, bisogna ragionare.... Mi hai tutto scombussolato.... Non è possibile, adesso....

Scese dal letto; s’accostò a Rocco e, battendogli una mano su la spalla, aggiunse:

- Torna su, figliuolo mio.... Tu soffri troppo, lo vedo... Domani, eh? con la luce del sole. - Ne riparleremo domani; ora è tardi.... Va’ a dormire, se ti sarà possibile.... va’ a dormire, figlio mio....

- Ma mi prometta fin d’ora.... - insisté Rocco.

- Domani, domani, - lo interruppe di nuovo il Blandino, spingendolo verso l’uscio. - Ti prometto.... Ma che birbante, oh! Le lettere gliele buttava dalla finestra? Bisogna aspettarsi di tutto a questo mondaccio, caro mio! Povero Roccuccio, ti tradiva.... Su, su, andiamo....

  


Da Grazia Deledda, Cenere, Roma, Nuova Antologia, 1904.


Da quella sera il contadino frequentò assiduamente la cantoniera: nelle sere piovose raccontava storielle ai bambini raccolti intorno al focolare fumoso, e ad Olì insegnò i posti ove meglio crescevano i funghi e le erbe mangereccie.

Un giorno egli trasse la fanciulla fin verso un avanzo di nuraghe, sopra un’altura, fra macchie coperte di bacche rosse, e le disse che fra i blocchi della tomba gigantesca stava nascosto un tesoro. - Eppoi so di tanti altri accusorgios [tesori nascosti], - egli disse con voce grave, mentre Olì coglieva finocchi selvatici; - io finirò bene col trovarne uno, ed allora...

- E allora? - chiese Olì, un po’ beffarda, sollevando gli occhi che al riflesso del paesaggio parevano verdi.

- Allora me ne andrò lontano; e se tu vorrai venir con me ti porterò via, in Continente. Io conosco bene il Continente, perché è da poco tempo che ho finito il servizio militare. Sono stato a Roma e poi in Calabria ed in altri posti ancora. Là tutto è bello... Se tu verrai...

Olì rise, piano piano, lusingata e felice, sebbene un po’ ironica. Dietro il nuraghe due dei suoi fratellini, nascosti in una macchia, fischiavano richiamando un passero: per l’immensità del paesaggio non s’udiva voce umana, non passava nessuno.

Il servo prese Olì per la vita, la sollevò, chiuse gli occhi e la baciò; e da quel giorno i due giovani s'amarono selvaggiamente, diffondendo il segreto della loro passione alle macchie più silenziose, ai cespugli della riva, ai neri nascondigli dei nuraghes solitarî.

Oppressa dalla solitudine e dalla miseria Olì amava il giovine per ciò che egli rappresentava, per le cose e le terre maravigliose che egli aveva vedute, per la città dalla quale veniva, per il ricco padrone che serviva, per i fantastici disegni che egli tracciava nell’avvenire; ed egli amava Olì perché era bella ed ardente: entrambi incoscienti, primitivi, impulsivi ed egoisti, si amavano per esuberanza di vita e per bisogno di godimento.

Anche la madre di Olì, a quanto narrava la figliuola, era stata una donna fantastica e ardente.

[…]

Un giorno il cantoniere si recò a Nuoro per comprare del frumento, e ritornò più triste e disfatto del solito.

- Olì, bada a te, Olì! - disse alla figlia minacciandola con la mano. - Guai se quel servo rimette ancor piede qui! Egli ci ha ingannati persino sul suo nome. Disse di chiamarsi Quirico ed invece si chiama Anania. È oriun[1]do di Orgosolo, razza di pastori, parente di banditi e di galeotti. Bada a te, donnicciuola: egli ha moglie!

Olì pianse e le sue lagrime caddero, assieme col frumento, entro l’arca di legno nero; ma appena l'arca fu chiusa e zio Micheli tornò al lavoro, la fanciulla andò in cerca del servo.

- Tu ti chiami Anania! Tu hai moglie! - gli disse, e gli occhi le fiammeggiavano di rabbia.

Anania finiva di seminare il grano sul prato smosso: due merli cantavano dondolandosi su una fronda d’olivastro; grandi nuvole bianche rendevano più intenso l'azzurro del cielo. Tutto era dolcezza, silenzio, oblìo.

- Ecco, - disse il giovane, che teneva ancora la bisaccia sulla spalla, - io ho una moglie vecchia. Ah, me la diedero per forza... come i parenti volevano dare a tua madre il vecchio possidente... perché io sono povero ed ella ha molti soldi. Ma che cosa importa? Ella è vecchia e morrà presto; noi siamo giovani, Olì, ed io voglio bene soltanto a te. Se tu mi abbandoni io muoio. Olì s’intenerì e credette.

- E che faremo ora? - domandò. - Mio padre mi bastonerà se continueremo ad amarci.

– Abbi pazienza, agnellino mio. Mia moglie morrà presto; ma anche non morisse io troverò il tesoro e ce ne andremo in Continente.

 Olì protestò, pianse, non sperò molto nel tesoro, ma continuò ad amoreggiare col servo.

La seminagione era terminata, ma Anania andava spesso in campagna per osservare se il grano spuntava, e per estirpare le male erbe dal seminato: nelle ore di riposo, invece di coricarsi, egli diroccava il nuraghe, con la scusa di costruire un muro con le pietre divelte dal monumento, ma in realtà per cercare il tesoro.

- Se non qui altrove, ma lo troverò! - diceva ad Olì.

[…] Egli parlava seriamente, ed Olì credeva. Credeva perché aveva bisogno di credere e perché Anania l’aveva abituata a ritener vere le cose più inverosimili, suggestionato egli stesso dalle sue fantasie.

[…]

Solo in autunno zio Micheli si accorse che sua figlia aveva peccato. Una collera feroce invase allora l’uomo stanco e sofferente che aveva conosciuto tutti i dolori della vita, fuorché il disonore. A questo si ribellò. Prese Olì per un braccio e la cacciò via di casa. Ella pianse, ma zio Micheli fu inesorabile. Egli l’aveva avvertita mille volte; e forse avrebbe perdonato se ella avesse peccato con un uomo libero; ma così no, non poteva perdonare. Per qualche giorno Olì visse nella casa in rovina intorno alla quale Anania aveva seminato il grano; i fratellini le portavano qualche tozzo di pane, ma zio Micheli se ne  accorse e li bastonò. Allora Olì, per non morire di fame e di freddo, giacché l’autunno copriva di grandi nubi livide il cielo, e il vento umido soffiava attraverso le macchie arrossate dal gelo, s’avviò verso Nuoro per chiedere aiuto all’amante.


 

Da Sibilla Aleramo, Una donna. Romanzo, Torino, Società Tipografica Editrice Nazionale, 1907 [ma 1906].


Era nell’ufficio della fabbrica, impiegato da un anno, un giovane del paese, figlio di piccoli proprietari, piacevole d’aspetto, con modi spigliati, ch’io trattavo da buon camerata, scambiando barzellette o disputando cordialmente negl’intervalli del lavoro, sopra tutto quando si rimaneva soli nel vasto stanzone ove entrambi avevamo il nostro tavolo. In quella Primavera l’ossequio leggermente ironico ch’egli aveva fin allora usato verso di me lasciò il posto ad una più spontanea attitudine di ammirazione, che non mi sfuggì e mi divertì. Mi raccontava del paese, di quello che i suoi compagni dicevano di me. Lo interrogavo sul mio conto con grande curiosità; mi descrisse uno d’essi, che si diceva innamorato di me e parlava di rapirmi: questo era un uso non raro in quei luoghi e al ratto seguiva il matrimonio. Io ridevo e accennavo a mio padre, il cui nome incuteva terrore. Più d’una volta infatti incontrai gli occhi di quel sedicente innamorato, non senza noia. Il giovane mi diceva anche che l’arciprete aveva fatto più volte accenno a noi in chiesa, attribuendo la disgrazia di mia madre a castigo di Dio. Affermava che alcune vecchie facevano il segno della croce quand’io passavo. Mi chiamava “demonietto” e pareva guardarmi come un oggetto curioso dal congegno ignoto e forse pericoloso. In breve ardì riferirmi lodi che secondo lui si facevano dai signori, di questo o di quel mio pregio fisico. Ripeteva tutto ciò con compiacenza. Le sue parole come il suo sentimento mi lasciavano tra offesa e lusingata, ma mi pareva di sentirvi un fondo di sincerità, e nella incipiente soddisfazione del mio rigoglio trovavo scusabile che colui, al quale non celavo d’altronde la coscienza della mia superiorità, dimenticasse talora che io ero la figliola del suo principale. Gli rispondevo scherzosamente, per fargli comprendere tuttavia che non davo alcuna importanza al gioco; talvolta mi compiacevo a cambiar improvvisamente il discorso, a trascinare il giovane sprovvisto di cultura e con opinioni abbastanza grette e convenzionali, in discussioni nelle quali ben presto egli restava battuto: allora ridevo, d’un riso alto, squillante, e così fanciullesco in fondo, che colui finiva per rider con me, non senza lasciar trasparire sulla faccia uno stupore un po’ ingenuo. Una seconda vittima delle mie bizzarrie era una vecchietta che frequentava la nostra casa per assistere la mamma. Chiacchierando, ella alludeva talora al mio avvenire, al tempo in cui sarei divenuta sposa e madre e avrei riso delle attuali mie funzioni d’impiegata; tranquilla io replicavo che non mi sarei mai maritata, che non sarei stata felice se non continuando la mia vita di lavoro libero, e che, del resto, tutte le ragazze avrebbero dovuto far come me. …Il matrimonio… era un’istituzione sbagliata: lo diceva il babbo sempre. La vecchietta s’indignava. “Ma allora il mondo finisce, non nascon più figlioli, non comprendi?” Restavo interdetta. Mia madre, già da qualche anno, mi aveva parlato delle funzioni misteriose dell’organismo femminile, pur senza soffermarsi sui rapporti fra uomo e donna. Certo, se mio padre propugnava la sparizione del matrimonio, voleva dire che i bimbi avrebbero potuto nascere ugualmente: il babbo non voleva la fine del mondo. Ed io, dopo tutto, non sentivo questa responsabilità verso il futuro… No, non mi sposerei.

[…]

Egli aveva venticinque anni, la persona maschia e snella, il viso olivastro animato da due larghi occhi neri: parlava con felicità ed abbondanza. Molte cose in lui mi urtavano, quotidianamente. Non tutte gliele celavo; ma egli non badava alle osservazioni di una ragazzina, stupito soltanto, abituato com’era a considerar la donna un essere naturalmente sottomesso e servile, della mia indipendenza. Non sapevo nulla di lui, soltanto avevo udito dire vagamente che una ragazza, da lui amata prima che andasse soldato, aveva tentato di uccidersi quando al ritorno egli non l'aveva più curata.

[…]

Egli comprendeva la mia incoscienza, constatava la mia ignoranza, la mia frigidità di bambina quindicenne. Velando con gesti e sorrisi scherzosi l’orgasmo ond’era posseduto, con lenta progressione mi accarezzò la persona, si fece restituire carezze e baci, come un debito di giuoco, come lo svolgimento piacevole d'un prologo alla grande opera di amore che la mia immaginazione cominciava a dipingermi dinanzi. Così, sorridendo puerilmente, accanto allo stipite di una porta che divideva lo studio del babbo dall'ufficio comune, un mattino fui sorpresa da un abbraccio insolito, brutale, due mani tremanti frugavano le mie vesti, arrovesciavano il mio corpo fin quasi a coricarlo attraverso uno sgabello, mentre istintivamente si divincolava. Soffocavo e diedi un gemito ch 'era per finire in urlo, quando l 'uomo, premendomi la bocca, mi respinse lontano. Udii un passo fuggire e sbattersi l 'uscio. Barcollando, mi rifugiai nel piccolo laboratorio in fondo allo studio. Tentavo ricompormi, mentre mi sentivo mancare le forze; ma un sospetto acuto mi si affiorò. Slanciatami fuor dalla stanza, vidi colui, che m’interrogava in silenzio, smarrito, ansante. Dovevo esprimere un immenso orrore, poiché una paura folle gli apparì sul volto, mentre avanzava verso di me le mani congiunte in atto, supplichevole…