Dal duellante all'"uomo senza qualità"

Il tema del duello accompagna il passaggio dai personaggi della tradizione romantica e risorgimentale, nutriti di alti e stabili ideali, al protagonista in crisi, nevrotico e inetto, nella letteratura decadente e modernista del Novecento.

Le ragioni sociali che conducono al duello i protagonisti della grande narrativa nell’età della crisi, tra Otto e Novecento, sono ancora le stesse, dall’onore privato all’offesa in ambito professionale o politico, ma le sfide sul campo che ne scaturiscono sono ambigue, o diseroicizzate, o metaforiche della “lotta per la vita”, secondo il concetto introdotto da Darwin e passato dalla studio della natura anche all’analisi della società umana, oppure esprimono una visione critica e alienazione rispetto ai ruoli della società borghese e poi della realtà storica durante il Ventennio.

Tra le tante, le pagine di autori capitoli del canone novecentesco come Italo Svevo, Luigi Pirandello e Primo Levi possono offrire qualche esempio emblematico.


 

Italo Svevo e la scherma

 

Ettore Schmitz, autore di romanzi capitali della modernità italiana con lo pseudonimo di Italo Svevo, è socio dell’Unione Ginnastica triestina e dilettante di scherma.

Sin dal 1891, quando compone un breve testo giocoso proprio per le nozze del proprio maestro di scherma, Conseguenze di un traversone, Svevo individua nelle sfide tra schermidori una metafora della “lotta per la vita” di derivazione darwiniana.

Troppo «sviluppo nervoso» rende debole e inetto lo schermidore:


«Sulla pedana, ed è causa sua, mi sento anche più piccolo che a tavolino, e non è dir poco per chi conosca la lotta che bisogna combattere per giungere a cavallo di certi periodi.


[…] la vostra arte [della scherma] tenta di ridare all’uomo una natura primitiva, toltane naturalmente l’ingenuità e l’ignoranza» (Ettore Schmitz, Conseguenze di un traversone, in Nozze Rovis-Angelini, 6 aprile 1891).

 


Duello come metafora della “lotta per la vita” in Una vita e nella Coscienza di Zeno




Appena l’anno successivo, il tema dell’inetto destinato a soccombere nello scontro sarà sviluppato nel primo romanzo, Una vita (1892): a sancire la propria sconfitta nella “lotta per la vita”, il protagonista Alfonso Nitti si suicida, sottraendosi al duello cui lo ha sfidato Federico Maller, fratello della fanciulla corteggiata, Annetta.

 

«Doveva battersi con Federico Maller in una lotta impari nella quale il suo avversario aveva tutti i vantaggi: l’odio e l’abilità. Che cosa poteva sperare? Gli rimaneva soltanto una via per isfuggire a quella lotta in cui avrebbe fatto una parte miserabile e ridicola, il suicidio» (Italo Svevo, Una vita, 1892).

 

Ancora nella Coscienza di Zeno (1923), Svevo presta autobiograficamente al suo protagonista, Zeno Cosini, lo sport della scherma, come attività ch’è parte integrante di un individuo «perfetto», vincente nella lotta per la vita, e come metafora dello scontro con il suo rivale per la mano della giovane Ada, Guido Speier:

 

«Mi proponevo di diventare più serio. Ciò significava allora di non raccontare quelle barzellette che facevano ridere e mi diffamavano, facendomi anche amare dalla brutta Augusta e disprezzare dalla mia Ada. […] Ad Ada spettava un marito perfetto. Perciò v’erano anche varii proponimenti di dedicarmi a letture serie, eppoi di passare ogni giorno una mezz’oretta sulla pedana e di cavalcare un paio di volte alla settimana passare ogni giorno una mezz’oretta sulla pedana» (Italo Svevo, La coscienza di Zeno, 1923).

 

«La sua voce [di Guido Speier] era alterata da una reale emozione che mi diede la gioia che prova uno schermidore quando s’accorge che l’avversario è meno temibile di quanto egli credesse» (Italo Svevo, La coscienza di Zeno, 1923).

 


 

Duello e prima guerra mondiale secondo Svevo

 

Ma il duello si fa in Svevo anche emblema dei cambiamenti tecnologici che hanno stravolto la naturalità della vita umana. Durante la prima guerra mondiale, in sintonia con il finale della Coscienza di Zeno, che si chiude sulla violenza inedita raggiunta dall’umanità dopo la prima guerra mondiale, Svevo inizia un saggio  Sulla teoria della pace. Qui utilizza l’istituto duellistico e le sue regole ferree, finalizzate a creare una parità assoluta tra gli sfidanti e a garantire dunque la vittoria al più forte, come pietra di paragone positiva, per dire della catastrofe inaudita dei conflitti tecnologici, dove a vincere sono solo le armi:

 

«La guerra è e resta una cosa turpe per ogni uomo equilibrato e morale. La sua turpitudine non è diminuita né dal patriottismo né dall’eroismo. È moralmente inferiore al duello dove il sentimento di giustizia che più facilmente penetra nelle relazioni fra individuo ed individuo ci induce a consegnare le stesse armi misurate e pesate ai due litiganti nel conato di provocare una sorta di giudizio di Dio sulla superiorità di uno di essi denudato di ogni cosa che non sia lui stesso mentre nella guerra apparisce più eroico colui che ha dietro di lui le fabbriche d’armi meglio organizzate» (Italo Svevo, Sulla teoria della pace, 1915-1918 circa).


Il duello tra la forma e la vita in Pirandello

 

Tantissimi sono i duelli narrati nelle opere pirandelliane, a testimonianza di come questo istituto d’onore solleciti la fantasia dello scrittore, in tutti gli ambiti della sua attività letteraria, dai romanzi alle novelle al teatro. Il duello si svela motivo funzionale a mostrare la realtà delle apparenze, della forma che sostituisce la vita, in romanzi come L’esclusa (1901), Il turno (1902) e Il fu Mattia Pascal (1904), in novelle come Quando si è capito il giuoco (1913) e in opere teatrali come Il giuoco delle parti (1918) e Ciascuno a modo suo (1924). Nel romanzo capitale nel cogliere la crisi conoscitiva e di valori del Novecento Il fu Mattia Pascal, il protagonista si è rifatto una vita fuori dalla forma con la nuova identità di Adriano Meis; ma vi rinuncia e inscena un suicidio, perché nelle sue «condizioni» non è in grado di affrontare le formalità giuridiche necessitare per affrontare un duello con il pittore Bernaldez che ha offeso:

«Potevo fare un duello nella condizione mia? […] E dunque dovevo soffrirmi in pace l’affronto, come già il furto? Insultato, quasi schiaffeggiato, sfidato, andarmene via come un vile, sparir così, nel bujo dell’intollerabile sorte che mi attendeva, spregevole, odioso a me stesso?» (Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, 1904).

 La deflagrazione dei ruoli sociali per mezzo del tema del duello è affidata da Pirandello alla novella Quando si è capito il giuoco e alla commedia che ne deriva, Il giuoco delle parti, mostrando umoristicamente il formalismo delle relazioni e rivelando la vita come recita di parti assegnati e inavocabili. Nel racconto, secondo le convenzioni sociali e le regole del duello, Memmo Viola manda una sfida per oltraggio a uno schermidore provetto che ha offeso sua moglie. A sorpresa, in barba al codice cavalleresco manda poi a combattere l’amante della donna, Gigi Venanzi, da tempo notoriamente il suo effettivo compagno:

 

«Io ti ho detto che a me tocca di far la parte mia, e a te la tua. Sono il marito e ho sfidato; ma quanto a battermi, abbi pazienza, non tocca più a me, caro Gigi, da un pezzo: tocca a te... Siamo giusti!» (Luigi Pirandello, Quando si è capito il giuoco, 1913).

 

 

 

Tra educazione fascista e metafora dell’esistenza: Primo Levi

 

A sorpresa, il clima dell’educazione fascista e dello scontro d’onore duellistico del Ventennio rivive con autoironia un tardo racconto autobiografico di Primo Levi, Un lungo duello (1984), raccolto in L’altrui mestiere (1985). Nel clima di affermazione virile, machismo e sfida d’onore che assedia gli studenti di Liceo alla fine degli anni Trenta, si consuma «un lungo duello» a schiaffi tra due adolescenti. Si sfidano, dandosi delle regole d’onore come in un codice cavalleresco, il mingherlino Primo e il «giovane barbaro dal corpo scultoreo» Guido. È una vera a propria cavalleria adolescenziale, con le mani al posto di sciabole e spade:

 «le regole, mai scritte né enunciate, si erano definite da sole: bisognava sorprendere la guardia dell’avversario, in strada, alla scrivania, se possibile anche in scuola, e colpirlo in piena faccia, senza preavviso, con quanta più forza si poteva, a metà d’un discorso pacifico. Era lecito, anzi apprezzato, distrarre l’avversario con chiacchiere, ed anche colpirlo da dietro, ma sempre e solo sulle guance, mai sul naso o sugli occhi; vietato colpire una seconda volta approfittando del suo stordimento; erano ammesse, ma quasi impossibili, le parate; era disonorevole protestare, lamentarsi o mostrarsi offesi; doveroso rivalersi, ma non subito: più tardi, o il giorno dopo, in piena distensione, nel modo più brusco e imprevisto. Eravamo diventati abilissimi nel leggere l’uno sul visto dell’altro la contrazione impercettibile che preludeva allo schiaffo: “Ecco che straluni li occhi per fedire”, citai io dall’Inferno, e Guido cavallerescamente mi lodò. Contro ogni previsione, dal selvaggio torneo uscii vincitore io, ai punti: avevo riflessi più rapidi di Guido, forse perché le mie braccia erano più corte, però i miei schiaffi andati a segno, anche se più numerosi dei suoi, erano molto meno violenti» (Primo Levi, Un lungo duello, in L’altrui mestiere, 1985).

 

Quando ormai solo è solo un ricordo, l’antico istituto cavalleresco del duello può diventare una grande metafora della memoria e della sfida della vita: 

«Di Guido ho perso le tracce, e non so quindi chi di noi due abbia riportato la vittoria nella gara di gran fondo della vita»  (Primo Levi, Un lungo duello, in L’altrui mestiere, 1985).


Dal duellante all'"uomo senza qualità". Testi di Italo Svevo e di Luigi Pirandello